
Sono passati quasi 13 anni da quando ebbi il mio primo contatto con Viola Nocenzi. L’occasione fu un’intervista per “contrAPPUNTI”, il trimestrale del Centro Studi per il Progressive Italiano.
Marzo 2008. Tutto era nato da un paio di brani su MySpace, mi incuriosii e ne parlammo.
Mi piacerebbe, prima o poi, riportare quella chiacchierata qui sul blog, perché – a rileggerla oggi – palesa già molti indizi che si possono scorgere nel suo album di esordio, uscito lo scorso 4 dicembre 2020.
Quanto subito emerge subito dalle prime note, è il gioco di squadra, compatto e affiatato, funzionale a mettere al centro lei (compositrice, cantante e interprete) ma sempre all’interno di progetto in cui sono parecchi gli elementi concorrenti alla riuscita di un prodotto di alta sartoria musicale.

La veste musicale usa vernice di famiglia: lo zio Gianni Nocenzi produttore e maestro concertatore tra tastiere e computer, in complicità con lo Zoo di Berlino (sempre pronto dare una pertinente zampata tra jazz, rock e alternative). Viola per i testi si è affidata alla penna dello scrittore siciliano Alessio Pracanica, firmando comunque una canzone, Bellezza. Quelle di Pracanica sono poesie con la voce nell’anima: piccoli e decisi intagli idilliaci – nel senso greco di “quadretto” – che riescono a cogliere la profonda intimità del quotidiano e dove ognuno si può riconoscere. Viola Nocenzi si affida a quelle parole e, a sua volta, affida le sue note alle pagine di un denso canzoniere fatto di attese (Viola), fughe (Lettera da Marte), preghiere laiche (Colui che ami), horror vacui et vanitas (Entanglement e L’orizzonte degli eventi) ed erotismo (Itaca).
La voce è lo strumento attorno cui tutto si annoda e si snoda: la prospettiva d’uso attuato da Viola ha qualcosa di mirabile. Messe da parte le varie statuette del pantheon canoro, l’interprete ha voluto sfruttare al massimo le quattro ottave, evitando giochi di prestigio o numeri di bravura virtuosistica, ma lavorando sulla varietà d’espressione timbrica e dosando quest’ultima sulla pertinenza dinamica richiesta dal brano. L’apprendistato lirico si fa valere (Lettera da Marte, Colui che ami e Bellezza) ma, talvolta, cede con emozione il passo a un registro quasi parlato (Viola), oppure si lancia in verticalizzazioni melismatiche quasi liberatorie (L’orizzonte degli eventi); suggestiva l’opera di compitazione quasi fono-semantica dei versi di Itaca: lì si notano procedimenti a cavallo tra il repertorio contemporaneo e quello popular di frontiera (alla Björk).
L’immersione di tutto ciò nell’acquario musicale del disco è avvenuto con una naturale cura al dettaglio, nel rispetto di uno spettro sonoro capace di fondere elementi elettronici, elettrici e acustici in una cangiante tavolozza in grado di abbracciare musica leggera, tradizione classica, post-rock, canzone d’autore e synth-pop (sempre con indubbia classe). Ma, in fondo, le etichette contano poco; soffermiamoci a cogliere taluni dettagli, indice di attenzione compositiva: la studiata irregolarità del ritmo (Lettera da Marte e Entanglement), la scrittura da aria melodrammatica (Colui che ami), i giochi di luce di un’orchestra sintetica (Viola), i chiaroscuri timbrici (Itaca), le possibilità rock (L’orizzonte degli eventi) e gli ambigui scambi tra melodia e armonia (Bellezza).
Un disco anche da leggere. C’è un verso interrogativo che colpisce: “Che la soluzione, in fondo, sia solo l’amore e la bellezza?”. Non solo fa centro, ma spiega anche lo sforzo concreto che c’è dietro qualsiasi creazione artistica. E questo CD non ne è esente (al di là delle parole e della musica).
(Riccardo Storti)