ROGER WATERS – “The Dark Side of the Moon Redux” (SGB, 2023)

Un lavoro fortemente divisivo che potrebbe mettere d’accordo tutti, a patto che lo si voglia prendere sul serio (senza essere seriosi). Questo è il mio parere ad una decina di giorni di continua circumnavigazione intorno a The Dark Side of the Moon Redux.

Vado ben oltre, perché questa è una di quelle opere che richiede pazienza e umiltà a chi scrive e pretende di poterne raccontare agli altri gli estremi critici e stilistici. Estremi, appunto, per ora visti da lontano, perché, nel corso di questa continua circumnavigazione, non ci si sente mai pronti a sbarcare su una terra cambiata negli ultimi 50 anni.

Sì, perché Redux è un po’ come quel posto che avevamo visto da bambini, di cui ricordiamo ogni particolare e che, a distanza di mezzo secolo, ci illudiamo non fosse cambiato; quindi, quando ritorniamo, pensiamo di sapere già tutto, ma poi, appena scesi dal veicolo, restiamo delusi perché le attese sono state tradite dal tempo (e noi non siamo più quelli di una volta), così, magari, giriamo i tacchi e ce ne ritorniamo da dove siamo venuti.

Questo è l’effetto che si prova ad un primo ascolto di Redux: ma come? Time senza il solo di Gilmour? Money senza quello di sax? Come si può privare The Great Gig in the Sky del celestiale vocalizzo di Clare Torry? E quanto è verboso Waters? Cosa avrà mai da raccontare?

In questi anni Waters e Gilmour si sono fatti la guerra sui social, sono volati gli stracci e ogni pretesto era buono per dire peste e corna di uno o dell’altro (roba da asilo Mariuccia), mentre il buon Mason – e, aggiungo, intelligentemente – ha dato avvio a quel brillante corso di riletture floydiane noto come Nick Mason’s Saucerful of Secrets, volto a recuperare la produzione del primo periodo della band.

Ora, quando ho sentito parlare di Redux, ho pensato subito al classico remake celebrativo e un po’ retorico. Mi sbagliavo, perché il lavoro di Waters è, invece, una ricreazione inedita, un legittimo tentativo di proporre il capolavoro che fu, corroborandolo, intanto, di input narrativi, imprescindibili da un corredo affabulatorio tutt’altro che gratuito, ma fondamentale per comprendere l’obiettivo del disco.

Waters riprende e declama Free Four da Obscured by the Clouds e inserisce la stesura di un sogno avvenuto qualche anno anno fa (e che ci racconta del presente), ripercorre la sequenza originali dei brani e ci mostra cosa ci possa ancora regalare The Dark Side of the Moon, oggi. Riprendere e rileggere con voce diversa lo stesso messaggio che non si era capito cinquant’anni fa: tutto qua.

Ha un bel dire, il buon Waters che sembra quasi narrarci un’inquietante favola intorno al fuoco in un’atmosfera notturna, sussurrando le canzoni sotto lo scudo protettivo di contenute dinamiche. Avete presente la crepuscolare valletta dei principi indolenti nel canto VIII del Purgatorio dantesco? Beh, Redux sarebbe stata la colonna sonora perfetta, anzi l’ideale musica ambientale.  

Lui canta, suona un po’ il basso, smanetta quel minimo di VCS3 e basta; il resto è affidato alla regia del fedele collaboratore Gus Seyffert che, con acutezza, oltre a suonare quasi tutti gli strumenti, ha dato vita ad un pool di sessionmen per una tavolozza variegatissima. E quale migliore cappella sonora da affrescare, se non quella degli Abbey Road Studios?

L’acustico prevale sull’elettrico: chitarre, pianoforte, archi e percussioni che raramente toccano i piatti; il comparto elettrico vede interventi caldi dell’Hammond e del Theremin (è la “voce” in The Great Gig in the Sky, tra l’altro). A proposito degli archi, sono beatlesiani (c’è aria di casa in quel di Abbey Road): quelli staccati in Time sembrano essere usciti fuori dalle sessioni di Strawberry Fields Forever o di I Am the Walrus, invece Us and Them si ammanta dei colori dei violini di A Day in the Life; le glissate indianeggianti in Any Colours You Like ricordano certi passaggi della produzione harrisoninana tra 1967 e 1968. E non manca una citazione di altro segno, tra classica e prog, la Bourée di Bach / Jethro Tull in una pigra Money (2’38”).

No, forse non è un capolavoro, ma sicuramente un’onesta e – perché no? – necessaria rilettura di un capolavoro a monte, un tassello aggiuntivo da non trascurare nella discografia floydiana, proprio perché getta una luce alternativa sullo stesso originale. Non dimentichiamo mai che (ri)nasce da Waters, che non è proprio uno sfizio di rivalsa, né tanto meno una mossa commerciale; probabilmente è pure un bilancio.

Fate la prova: ascoltate e riascoltate Redux; riprendete The Dark Side of the Moon e ditemi: ha sempre lo stesso gusto di allora?

(Riccardo Storti)

6 pensieri su “ROGER WATERS – “The Dark Side of the Moon Redux” (SGB, 2023)

  1. Grande Ricky, sai sempre trovare le parole giuste per definire l’opera d’arte.
    Mi trovi, come sempre, in accordo perfetto con te, su tutta la linea.
    Ho amato questo Lp di Roger dal primo momento. La tua analisi mi dà solo conferme. Grazie👍🎶🎶🎶

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  2. beh , grazie mi era sfuggito l’accenno della Bourée di Bach; gli archi ( per lo più violoncello ) penso siano usati in sostituzione all chitarra di Gilmour .. mentre noto che l’ hammond sia un po’ in omaggio a Wright , visto il mantenimento del suono Pink Floyd .

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  3. Eh, Riccardo, come non concordare con la tua disamina MUSICALE di un processo/percorso naturale ed attualizzato. Da un sano punto di vista artistico e musicale dispiace per chi ne ha già abbondantemente scritto ovunque negativamente, forse si è partiti troppo prevenuti, si è troppo abituati a sentire l’originale o peggio ancora non si ha la concezione di cosa debba essere una rivisitazione così come dovrebbe essere fatta, sempre. Un sentimento, uno stato d’animo, un umore ed un feeling del tutto personale dell’artista, meglio ancora se poi ne è stato partecipe diretto, 50 anni prima. Lo trovo invece adeguato ai tempi moderni, con arrangiamenti totalmente rifatti, strumentazione + orchestrazione ambientale rivista e sicuramente corretta. Un lavoro rigenerato in un ottica di intelligenza musicale attuale !
    Fermo restando cosa è stato in termini di mero ‘successo’ DSOTM 50 anni fa (case discografiche docet, non dimentichiamolo MAI!), con tanto di fraseggi di chitarra di Gilmour, saxofoni & coretti che quà mancano (ma ‘non si sentono mancare’) bisogna porre attenzione alle abitudinarietà che in un contesto universale come è la Musica si devono saper mantenere a debita distanza, specialmente in fase di trasparente analisi. Non è quindi unicamente una rielaborazione attualizzata, bensì quello che salta all’orecchio, immune da preconcetti, è una totale riedizione dell’album sia per criterio di approccio che per pura rivisitazione personale o meglio forgiata secondo il proprio umore attuale che ha aggiunto un deciso ritocco di novità senza limitarsi assolutamente a ‘ricantare’ alcuni pezzi con la nostalgia di un passato che appunto non tornerà più. Quindi ben venga questa visione progressiva di questo lavoro riproposto. Tecnicamente la visione intellettuale del Musicista Roger Waters in questo contesto la vedo mentalmente molto similare al lavoro di rivisitazione che ha fatto Keith Emerson con ‘The three fates project’ riprendendo quei suoi stessi brani di qualche decennio prima riadattandoli alla propria visione attualizzata e decisamente maturata nel tempo.
    Ogni paragone con l’originale è fuori tempo e luogo quindi, come altrettanto è fuori luogo cercare di aggrapparsi a giudizi pro&contra verso la personalità extra-musicale di Waters (che c’azzecca con la Musica?), un giudizio va dato all’opera in se, evitando possibilmente simpatie o antipatie di qualsiasi genere o forma oltre a seppur normalmente concepibili ‘nostalgie’.

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