ELLESMERE – Stranger Skies (AMS / BTF, 2024)

Largo alla corazzata, il veliero di Ellesmere è ripartito: quarto capitolo della saga del progetto di Roberto Vitelli (ex Taproban), cominciata nel 2015 con Les Châteaux de la Loire e proseguito fino al 2021 con  From Sea and Beyond e Wyrd. L’ultimo lavoro Stranger Skies prosegue l’impianto concept basato sul tema del viaggio (anche metaforico) verso mondi inesplorati. A corroborare la struttura, il layout grafico, affidato all’illustratore Rodney Matthews che, fedele al filone classico delle copertine di album prog anni Settanta, restituisce all’opera musicale una sintonia figurativa d’altri tempi (insomma, ci sarà anche il CD, ma questo è un “disco” da avere su vinile anche per la label). Non ultimo il team, con camei di notevole rilievo: Dave Jackson (Van Der Graaf Generator), Clive Nolan (Pendragon), Graeme Taylor (Gryphon), Tomas Bodin (The Flower Kings), John Hackett, Bob Hodges (Czar), oltre alla base originaria formata dallo stesso Vitelli al basso (e compositore dei brani), Mattias Olsson (Änglagård) alla batteria, John Wilkinson (Mama) alla voce e alla redazione dei testi e Giacomo Anselmi alla chitarra.

Il risultato conferma le ambizioni di partenza: una monumentale opera prog-sinfonica che parte da due precisi riferimenti stilistici – peraltro sottolineati nella press release ricevuta – ovvero A Trick of a Tail dei Genesis e Moving Pictures dei Rush. In effetti si avverte questa sintesi tra due prassi differenti in ambito prog, da un lato la prediligione per le “long track” tipiche degli anni Settanta (marcatore Genesis) e dall’altro una maggiore attenzione all’aspetto dinamico, ritmico e polimetrico (marcatore Rush) con anticipazioni chiaramente neo-prog. Lo stesso coinvolgimento dei vari attori in campo lo mette in evidenza e attraversa generazioni di musicisti: la vecchia guardia (Jackson, Taylor, Hackett e Hodges) e quelli del “rinascimento prog” anni Ottanta – Novanta (Nolan, Bodin, Olsson e Wilkinson).

I Genesis dominano? Non semplifichiamo. Vero che, appena Wilkinson comincia a cantare, pensiamo a Phil Collins e che taluni schemi ricalcano quella grammatica, ma, in realtà, qui siamo di fronte ad un manufatto manieristico che sa il fatto suo. Le radici sono quelle (come per Guido Reni, lo erano quelle di Raffaello), ma diventano strumento di elaborazione autonoma, all’interno di un canone espressivo capace di garantire una forma raffinata e rifinita ai propri contenuti; pertanto l’affermazione di avere dei referenti cui rivolgere la propria creatività suona come un valore aggiunto di onestà intellettuale.

L’album consta di 6 composizioni; le ultime due, sforando i 10 minuti, hanno una fisionomia non dissimile a quella della suite.

Si inizia sommersi dalla marea orchestrale (quasi da soundtrack) dell’opener Northwards, che si evolve attraverso ricercati pattern di batteria, giochi di modulazioni e cambi di atmosfera. Tundra, pur stando al gioco genesisiano, Vitelli e i suoi disseminano indizi che puntano soprattutto agli Yes per i controtempi, la linea di basso, la scrittura chitarristica e le tessiture corali del finale.

Il preludio acustico della dodici corde in Crystallized potrebbe fare pensare ad una ballad nello stile di Ant Phillips, lo stesso tema però viene traslato sull’asse elettrico di tastiere e basso con l’aggiunta della batteria: il clima muta e la brillante aggressione del sax di Jackson, fusa ad un motivo ipnotico, ha qualcosa del rock-jazz (e non jazz-rock… occhio) degli Osanna di Palepoli e L’uomo.

Il baccanale di Arctica, sul rutilante e intermittente metro di 7/4, mette in contatto i Genesis di Los Endos e Dance on a Volcano con i primi spin-off di Steve Hackett, ma anche con gli Yes di Relayer fino a lambire le cavalcate dei Rush e dei Pendragon (Arctica chiama Alaska?).

Le conclusive Stranger Skies e Another World – nel loro blocco temporale di oltre 23 minuti – arricchiscono di complessità il quadro generale del disco. La title track rifulge per l’intro da ballata elisabettiana, fuso ad un motivo tematico bachiano, però la canzone incontra una doppia cesura: un tema oscuro e plumbeo in 6/4 (a 3’02” – sembra una scoria rubata al Museo Rosenbach o al Balletto di Bronzo o ai Delirium di Viaggio negli arcipelaghi del tempo) e una cellula in 7/8 su cui si libra un moog (3’21”); chiude (10’47”) una coda sinfonica vicina per ariosità ai Camel (sarà quel faluto di John Hackett).

In Another World si fa sentire maggiormente il peso ritmico: domina una tradotta ipercinetica in 7/8 assai prossima a sconfinare i limiti del prog metal per finire chissà dove (il buon Wilkinson crea un’allucinazione vocale, per cui a tratti pare di ascoltare i Dream Theater con Phil Collins come frontman); nelle fasi più rumoristiche, si avverte pure la lezione dei King Crimson (più gli ultimi, che quelli “storici”… andate a 4’19”). E, al pari della composizione precedente, un congedo di segno opposto (da 8’58”): se l’album era iniziato alla stregua di una colonna sonora con i titoli di testa, eccoci ai titoli di coda, accompagnati all’uscita da un inaspettato pianoforte (suonato da Tomas Bodin) alla Pino Calvi, con quel leggero tocco di classicità da sceneggiato RAI. E le voci dei bambini che ci fanno intendere che siamo in un “altro mondo”, probabilmente migliore.

(Riccardo Storti)   

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